La scuola può sempre fare qualcosa in più
Maurizio Spaccazocchi, Andrea Iovino
Quello che è vivo dentro la memoria di certi giovani, non è sicuramente quello che vive e scorre nella memoria di molti dei nostri figli, dei nostri alunni e studenti.
Tutti noi pecchiamo di quell’egoismo esistenziale che ci limita l’ampiezza della sensibilità umana!
Tutti noi ci stiamo illudendo nella speranza di vivere in pace e senza rimorsi!
Tutti noi preferiamo convincerci che la nostra vita, è la vita che vivono tutti quanti nel mondo.
No! Questo non è affatto vero!
Noi siamo veramente personaggi molto strani: a volte ci arrabbiamo tanto e magari ci lasciamo anche trascinare dall’invidia se veniamo a conoscenza di persone che vivono esageratamente nell’agio, nella ricchezza più sfrenata. Mentre certe altre volte facciamo finta di nulla pur sapendo che, tanto vicino quanto lontano da noi, ci sono bambini e bambine, ragazzi e ragazze così tanto colpiti dalla miseria e dalla sfortuna che ogni giorno sono costretti a vivere come schiavi, come carcerati, come ammalati, come persone in pericolo, coscientizzando in maniera sempre più oppressiva che la loro vita, purtroppo, vale molto meno di uno di quei remi di soccorso, sporchi e consunti, di quel barcone a motore che dal mare li ha portati fino a Lampedusa.
Ma spesso c’è pure un’altra colpa molto più grande che abbiamo noi genitori e docenti: il cercare di occultare alla memoria dei nostri figli, tutte quelle giovani male-vite che ogni giorno sopportano tanti bambini e ragazzi italiani o stranieri che siano… Questi sono tutti dentro la stessa “barca”!
E noi, molto spesso, preferiamo non dir nulla, stiamo zitti tanto a casa che in classe. Sì, lo facciamo per far vivere in serenità e pace i nostri figli, o comunque per non dar loro il peso della responsabilità, o ancora per non impressionarli troppo.
No! Noi come genitori e docenti in chiaro stato di benessere, se pur a volte limitato, continuiamo a sbagliare! E continueremo a farlo finché non faremo capire, ai nostri figli e ai nostri studenti, che la vita non si può nascondere, che ogni forma vita dev’essere sempre presente davanti ai loro occhi! Perché… le vite… tutte le vite… devono poter vivere nel bene e per bene!
No, non è un sogno! È una presa di coscienza che può portare alla realtà!
Tutti gli esseri umani hanno diritto a un’esistenza giusta, positiva e gratificante: questo, per noi genitori e docenti, non può che essere un principio educativo fondamentale, inalienabile!
E allora tutti noi, padri e madri, educatrici ed educatori, che nel nostro più semplice e quotidiano benessere tendiamo troppo spesso a chiudere gli occhi, la bocca, le mani e soprattutto il cuore davanti a queste sfortunate male-vite, dobbiamo saper ascoltare il risentimento della nostra coscienza, perché sappiamo benissimo di contribuire, anche con un ossequioso silenzio, alla prosecuzione di storie come questa che ora, come a volerci scusare, Vi invitiamo a leggere davanti ai vostri figli, difronte ai vostri alunni.
Ed è certo che non basterà solo la lettura: dovremo dialogare con loro, rispondendo alle loro sensibili e meravigliate domande, facendo uso di comprensibili riflessioni profonde, cariche di umanità, ma soprattutto… affidandoci a quel sano e giusto senso di responsabilità che non potrà fare a meno di attanagliarci in gola!
La vita, quella vera, è questo che richiede!
Smettiamola di far finta di nulla!
È piena la terra di gente che soffre anche per colpa nostra!
COME FARFALLE
Noiosa! Quella giornata era stata triste e noiosa…
Sveglia alle 10, dentro casa perché pioveva, seduto sul divano ad ascoltare musica, senza poter parlare con nessuno perché nessuno qui capisce la mia lingua. A pranzo “macaruna”, come ogni giorno da quando sono in Italia, e mozzarella col tonno, non ne posso più. Facessero un po’ di cous cous mi sentirei più a casa.
Qui in Italia non ho amici, a parte che con i ragazzi che vivono in comunità non so parlare con nessuno, non esco quasi mai. A volte sembra che tutti mi guardino male e mi insultino ma io non capisco né perché né cosa dicono. Io quando mi parlano rispondo sempre sì o no, senza capire, e a volte loro ridono e mi sembra che mi prendano in giro. Allora ci resto male e mi chiudo in camera.
In Gambia invece avevo molti amici, il mio miglior amico era Kamal. Aveva la mia età, era il mio vicino di casa, e giocavamo sempre a pallone. Suo zio aveva la TV e noi ogni tanto guardavamo le partite del campionato italiano. Io tifoso dell’Inter e lui del Milan. Nonostante questo ci volevamo molto bene. Per me questa era la vera amicizia: rispettarsi a vicenda, essere sinceri, avere la possibilità di raccontare i miei problemi personali e avere qualcuno che mi supporta e mi dà consigli. Qui le partite le guardano tutti e tutti i giorni, ma guardarle adesso non è la stessa cosa. Mi annoiano.
Per fortuna, il pomeriggio ci sarebbe stata la scuola, ero molto felice perché pensavo che imparare l’italiano sarebbe stato utile per farmi nuovi amici. Arrivato a scuola rimasti stupito come ogni volta che vi ero entrato nei giorni precedenti. Non avevo mai visto delle pareti così bianche e poi ce n’era una così colorata da emanare così tanta gioia che mi ricordava i colori e le tradizioni del mio paese. Guardandola mi sentivo quasi a casa.
Mi sedetti al mio banco e arrivò la solita professoressa. Era una signora anziana, alta, di media corporatura, abbastanza severa, con i capelli sempre ordinati. Iniziò a spiegare una cosa che diceva si chiamasse “verbo essere” e io la guardavo senza capire. Continuavo ad annoiarmi.
Ad un certo punto un ragazzo venne verso di noi. Lo osservavo da lontano già da quando era arrivato, mi sembrava così strano, non avevo mai visto una persona così bianca e con i capelli così rossi. Dalla felpa semiaperta spuntava una maglietta nerazzurra. Come la mia.
Mi venne incontro e mi dice Lukaku”. Caspita, interista! Tifiamo per la stessa squadra e io gli dico l’unica altra cosa che so dire in italiano oltre “si” e “no”:“Inter”! Ci sorridiamo. Non ho visto molti sorrisi da quando sono qui.
Cominciamo a chiacchierare in Inglese. Io l’ho studiato un po’ a scuola forse anche lui. Mi chiede da dove vengo. Da dove vengo? Comincio con il mio inglese incerto a palare della mia terra. Gli mostro la cartina appesa al muro della scuola. Piccolo il mio paese, nella grande Africa. E sulla cartina gli faccio vedere la strada che avevo percorso.
Un giorno, era ancora tarda notte, sono partito dal mio paese, il Gambia, con Kamal il mio amico d’infanzia. Me lo ricordo ancora quel cielo nero perfetto e quelle stelle.
Noi sognavamo di arrivare in Italia di scappare da quella terra amata, pur sapendo che, nonostante la povertà, la guerra, l’ingiustizia l’avremmo sempre portata con noi.
Abbiamo attraversato il deserto libico dove c’è la temperatura a 50, dove si muore di sete, dove si sta male, dove ci si sente soli anche se sei col tuo migliore amico.
Viaggiavamo su camion stracarichi di ragazzi come noi o a piedi, sotto il sole implacabile di giorno e il freddo intenso della notte.
Siamo arrivati a Tripoli dove ci hanno arrestato. Dopo sei mesi le nostre famiglie hanno potuto pagare le persone che ci trattenevano là dentro. Ma i carcerieri invece di liberarci ci hanno venduto agli scafisti che a loro volta ci hanno chiesto altri soldi.
Non ne avevamo e ci hanno fatto lavorare per poter partire per l’Italia, ci hanno schiavizzato. Resistevamo pensando che aldilà del mare c‘era l’Italia.
Lì c’è vita, il nostro futuro, pensavamo. Magari avremmo potuto anche vedere un derby dal vivo! Purtroppo nella traversata ho perso il mio amico Kamal.
Ho perso un pezzo della mia storia.
Ora sono qui.
Mentre racconto lo sguardo di Cloud sembra incredulo. Capisco che tutto ciò che aveva sempre visto in televisione attraverso le mie parole diventava reale.
Che nome strano, Cloud, nuvola. Fa pensare a tempesta, maltempo, ma guardandolo la sua persona non mi faceva pensare a niente di tutto questo.
Gli chiedo qualcosa su di lui. Mi parla della sua famiglia. Lui non ha fratelli, ha una bella famiglia, vive in una bella casa, va in una bella scuola.
Ma anche lui come me, non ha amici. Penso che nonostante le nostre vite siano così diverse forse potremmo diventare amici. Non sarebbe mai come con Kamal, ma chissà…
Quando arrivò il professore a dire che il tempo era finito mi sembrò che fossero passati pochi minuti, ma in effetti io in questa scuola ci sto sempre due ore. Ci salutiamo: lui con la mano alzata io con la mia sul cuore.
Chissà se lo incontrerò ancora? Magari un giorno mi piacerebbe incontrare la sua famiglia.
Mi diressi verso la stazione, presi il treno per fare rientro in comunità. Una volta arrivato tornai a sdraiarmi sul divano e ripensai al mio pomeriggio e come la vita, in una giornata noiosa, fosse riuscita a sorprendermi. Presi il telecomando e accesi la TV. Come sempre non mancavano immagini di sbarchi a Lampedusa e mi tornò addosso una immensa tristezza. Dopo un pomeriggio in cui pensavo di aver trovato un amico, mi scappò qualche lacrima. In quel momento una delle educatrici mi disse che mi volevano al telefono. Non era mai successo prima. Andai a rispondere sorpreso.
Stefan
Fortunato
Gianluca
Mohamed Ibrahim
Alexandru
Paolo
Istituto Penale Minorile di Acireale